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Sulla libertà di morire con dignità

Le preferenze apostoliche universali dei gesuiti

All’Istituto Stensen confronto sul controverso dibattito contemporaneo sul fine vita.

Da diversi decenni, ormai, in molti Paesi del mondo è in corso un ampio e controverso dibattito sul riconoscimento o meno di un diritto ad una morte anticipata, o, in termini più specifici, sul problema etico-giuridico dell’ammissibilità morale del ricorso all’eutanasia, — nelle diverse modalità in cui il paziente può essere aiutato a morire (eutanasia passiva, attiva, o suicidio assistito).

Il miglioramento delle condizioni igieniche di vita, la sempre più diffusa informazione sanitaria e, soprattutto, i crescenti sviluppi della ricerca e sperimentazione biomedica hanno di molto allungato le aspettative e la durata della vita umana, anche se non proporzionatamente la sua qualità.

Nelle istituzioni sanitarie è in atto un profondo ripensamento e rinnovamento in merito e tra gli stessi cittadini sta anche maturando una crescente e positiva presa di coscienza che le persone — giunte al termine della loro vita — devono essere rispettate nella loro autonomia e dignità, in considerazione soprattutto della loro estrema fragilità e vulnerabilità. I problemi però sollevati dagli inarrestabili sviluppi della ricerca e sperimentazione biomediche sono molteplici, spesso inediti ed estremamente complessi. Essi coinvolgono in vario modo la nostra società, la politica sanitaria e anche ogni singolo cittadino.

Si intitola “Sulla libertà di morire con dignità” la relazione tenuta da P. Ennio Brovedani sj il 17 gennaio scorso al Convegno FINE VITA – tra diritto alla vita e diritto alla libertà, organizzato dall’Associazione HUMAN – Diritti e Libertà, in collaborazione con l’ORDINE DEGLI AVVOCATI di Firenze, la FONDAZIONE PER LA FORMAZIONE FORENSE dell’Ordine degli Avvocati di Firenze e con il patrocinio della Fondazione Stensen.

Uno stralcio della relazione e le conclusioni:

“I “valori morali” — quelli che in diverso modo vincolano la coscienza personale e l’identità della comunità di appartenenza (oppure inducono una possibile e circostanziale “obiezione di coscienza”) — sono la proiezione ideale di un “dover essere” (di un orizzonte di compimento). In quanto tali, essi si propongono e mai si impongono, né tantomeno si prepongono”.

La dignità umana intesa in senso assoluto, per es. [come la concepiscono i sostenitori dell’etica eteronoma], è inalienabile e non quantificabile (in ragione della sua natura intrinseca); un’infermità fisica o mentale ereditata o accidentalmente acquisita non ne sminuisce il valore, e affermare che in certe situazioni l’eutanasia o il suicidio assistito consentono una morte più degna, non ha senso [La dignità, in quanto proprietà intrinseca, sostanziale, non è dell’ordine del quantificabile e del calcolo, ma dell’essenza e quindi della non negoziabilità].
Ma anche la dignità intesa come dimensione e condizione etico-normativa soggettiva o personale [come la concepiscono i sostenitori dell’etica autonoma], rischia di essere troppo condizionata dai propri vincoli valoriali identitari — senza escludere possibili conflitti d’interesse — per proporre una gestione politica della fase terminale dell’esistenza umana condivisa, che contempli un presunto diritto individuale ad una morte anticipata o prematura, a discrezione del richiedente.

Non è facile gestire correttamente l’insieme di questi problemi e dilemmi, ma occorre sforzarsi di trovare dei compromessi ragionevolmente convincenti e accettabili, che tengano conto di tutte le possibili implicazioni e conseguenze, ricadute antropologiche e sociali, e consentano una gestione del “morire” rispettosa della dignità del paziente e dei valori aggiunti propri della comunità civile, culturale, etnica, spirituale e confessionale di appartenenza.

Singole e rigide posizioni morali, pertanto, non dovrebbero essere poste a fondamento di un ordinamento giuridico statale plurale, in cui coesistono etnie, culture e confessioni religiose dai valori spesso divergenti. Le norme giuridiche, infatti, devono essere configurate in modo tale da consentire decisioni conformi alle diverse convinzioni etiche, ossia, all’effettivo stato della coscienza morale della società entro cui vengono emanate, a prescindere dalle contingenti dinamiche politiche che possono aver presieduto alla loro democratica approvazione. A maggior ragione se prevale l’opinione che i conflitti etici possono trovare una soluzione nell’ordinamento giuridico vigente.
Quando però il confronto delle ragioni non perviene a un consenso, e le normative adottate rischiano di tradursi in limitazioni della libertà dei cittadini, è allora possibile fare appello all’obiezione di coscienza, in base alla quale discernere quali limitazioni si possono considerare ammissibili e quali, invece, imposte. L’obiezione di coscienza è un diritto inalienabile di ogni essere umano (Cfr.: art. 2, 19, 21 Costituzione; art. 18 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) e consiste nel rifiuto di adempiere un obbligo imposto dalla legge contrario ai propri personali convincimenti morali e alla propria coscienza. Come ogni altro diritto, però, l’esercizio dell’obiezione di coscienza non è assoluto, ma dev’essere contestualizzato (analogamente al rispetto della legalità). Un compito questo che rappresenta una delicata sfida culturale, politica e spirituale per i prossimi anni ed esige delle adeguate e non comuni competenze. In tal senso, un ruolo importante, — a volte anche decisivo, — possono svolgerlo la compassione e la solidarietà umana.

Qui la relazione di padre Ennio Brovedani sul FINE VITA

 

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