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Sudan. Progetti educativi e psicosociali nelle tendopoli per la pace

Il Jesuit Refugee Service sta offrendo un grande contributo nel campo profughi di Maban, nel Nord-Est. I gesuiti portano avanti progetti educativi, psicosociali e pastorali, che vengono sostenuti anche dal Magis, insieme ad altre organizzazioni europee della Compagnia di Gesù

Strano destino quello del più giovane Paese africano. Nato, dopo anni di guerra contro il Nord all’insegna di grandi speranze democratiche, è sprofondato nuovamente in guerra. Una guerra fratricida tra l’etnia dinka maggioritari e quella nuer, minoritaria. Un conflitto senza quartiere che è legato, da un lato, alle crescenti rivalità tra il presidente Salva Kiir e il suo (ex) vice Riek Machar e, dall’altra, dalla gestione delle immense risorse petrolifere e idriche (il Paese è attraversato dal Nilo).

Il petrolio accende la guerra

La lotta per il potere e le crescenti tensioni scoppiano il 13 dicembre 2013 quando a Juba, la capitale del neonato Stato, le truppe fedeli a Kiir si scontrano con i commilitoni legati a Machar. Nella battaglia muoiono oltre 500 persone e 800 rimangono ferite. Dopo oltre 15 ore di combattimenti ed esplosioni per le strade, Kiir annuncia di avere ripreso il controllo del Paese, parlando anche di un «tentativo di colpo di Stato». Machar gli risponde incitando l’esercito a rovesciare Kiir. E aggiungendo: «Se vuole negoziare le condizioni del suo abbandono del potere noi siamo d’accordo. Ma se ne deve andare».

Gli scontri però continuano e la spaccatura tra dinka e nuer peggiora. I combattimenti si estendono in varie zone del Paese. Il 19 dicembre la base Onu di Akobo viene assaltata dai ribelli: muoiono tre caschi blu indiani e decine di civili. Intanto si diffondono sempre di più notizie di uccisioni etniche.

Il 23 gennaio 2014, un mese dopo l’inizio degli scontri, governativi e ribelli firmano ad Addis Abeba, nella sede dell’Unione Africana, il cessate-il-fuoco. Nonostante l’intesa, sul terreno continuano gli scontri tra le fazioni, in particolare nella zona di Malakal, la regione «petrolifera» nell’Alto Nilo, e nelle zone di Unity e Jonglei. Medici senza Frontiere denuncia l’uccisione di almeno 14 pazienti ricoverati nell’ospedale di Malakal. Anche i campi di Msf a Leer e a Bentiu vengono «completamente distrutti».

Human Rights Watch, a sua volta, denuncia violenze, che potrebbero essere sfociate in «crimini di guerra», commesse da entrambe le parti. L’inviato dell’Onu, Toby Lanzer, afferma che i primi sei mesi di conflitto hanno portato alla morte di migliaia di persone, più di un milione di sudsudanesi è stato costretti a lasciare la propria abitazione e cinque milioni necessitano di assistenza sanitaria.

Nell’agosto 2014 riprendono i colloqui di pace ad Addis Abeba. Dopo mesi di trattative, il 2 febbraio 2015, Salva Kiir e Riek Machar firmano un’intesa per mettere fine al conflitto. Secondo l’accordo, Kiir rimane Presidente, mentre Machar sarà Vicepresidente. Subito dopo la firma però Machar dichiara che le parti dovranno tenere diversi colloqui per discutere delle funzioni del nuovo governo: «È un accordo parziale, perché non abbiamo risolto le questioni più critiche». E, infatti, le trattative si arenano. Il 6 marzo i colloqui di pace tra Governo e ribelli sono aggiornati, ma non è stata fissata la data del nuovo incontro. Il conflitto riprenderà? O si arriverà a una pace duratura?

I gesuiti scendono in campo a Maban

In questo contesto, il Jesuit Refugee Service sta offrendo un grande contributo nel campo profughi di Maban, nel Nord-Est. Maban è una tendopoli che ospita 140mila rifugiati dalla regione del Blue Nile in Sudan e 60mila rientrati da differenti campi nell’Africa orientale.

La presenza di ribelli nuer ha fatto sì che l’area diventasse terreno di scontro e quindi insicura e difficile da raggiungere. I gesuiti del Jrs che, proprio a causa dell’insicurezza sono stati evacuati due volte nel corso del 2014, a settembre sono però rientrati. Lo loro presenza è importante perché, oltre ad assicurare l’assistenza spirituale, i gesuiti portano avanti progetti educativi, psicosociali e pastorali. Progetti che vengono sostenuti anche dal Magis, insieme ad altre organizzazioni europee della Compagnia di Gesù.

Con lo scoppio del conflitto tutti gli sforzi compiuti dal Paese nel sistema educativo si sono, infatti, arrestati. La mancanza di insegnanti, dovuta alla profonda differenza tra lo stipendio di un insegnante che è di 270 sterline sudanesi (circa 45 euro) e quella di un soldato che viene pagato mille sterline sudanesi (160 euro), fa sì che molti insegnanti abbandonino le scuole e si arruolino nell’esercito e quelli che restano non hanno adeguata preparazione.

Il governo non è in grado di pagare tutti gli insegnanti, così in molte scuole i docenti sono a carico dei genitori. «Oggi un insegnante è pagato molto meno del personale militare”, osserva padre Sánchez, uno dei gesuiti impegnati sul campo, “ma il prezzo di tutto ciò sarà pagato in seguito. Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate l’ignoranza!».

Il Progetto educazione a Maban vuole contribuire anzitutto sul piano formativo. Sono così stati varati due corsi: uno per il sostegno di 160 maestri e maestre d’asilo e di scuola primaria in tre dei quattro campi profughi esistenti a Maban e Bunj; il secondo per l’alfabetizzazione in inglese di 90 persone.

Il Sud Sudan ha voluto sostituire l’insegnamento in arabo (lingua associata al Nord) con l’insegnamento in inglese: una sfida per gli insegnanti egli studenti.

Non solo educazione…

I gesuiti hanno pensato anche a progetti in campo non educativo. In particolare, offrono sostegno psicosociale ai gruppi più vulnerabili; offrono visite a domicilio ai malati tre volte alla settimana; distribuiscono generi di prima necessità: cibo, vestiti, teli di plastica; organizzano attività sportive e ricreative per rifugiati e comunità di accoglienza.
In quanto sacerdoti offrono poi sostegno pastorale: celebrano la Messa in tre località della parrocchia (due nella città di Bunj, una nel campo di Doro) per i rifugiati, le comunità di accoglienza e il personale umanitario; formano i catechisti; e animano i gruppi giovanili.
In tutte le varie proposte, il Jrs è molto attento a non creare disuguaglianze tra le comunità di rifugiati e le comunità locali per cui le attività sono rivolte a tutti e ci si muove sempre in sinergia per non creare tensioni.
Per ulteriori informazioni:
– Fondazione Magis, via degli Astalli 16, Roma;
– tel. 06.69700280, fax 06.69700315;
– mail: magis.gesuiti.it

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