Una casula e una stola. Poi un messale, una stilografica, un paio di occhiali. La sede del vicariato apostolico di Anatolia è anche episcopio, convento, parrocchia, centro di accoglienza per pellegrini e studiosi, centro studi biblico-patristico, sede centrale della Caritas e tante altre cose. Sono quegli oggetti, però, raccolti in una piccola teca della cappella, il polo magnetico del luogo. Appartenevano a monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia dall’11 ottobre 2004 al 3 giugno 2010, giorno in cui fu assassinato dal suo autista, Murat Altun. Un delitto crudele (monsignor Padovese fu decapitato) su cui non è mai stata fatta piena luce, perché Altun soffriva di disturbi mentali ma negli ultimi tempi aveva anche seguito un percorso di radicalizzazione islamica. Una ferita profonda per i cristiani di Turchia, che si è riaperta l’estate scorsa quando il giovane killer è uscito dal carcere dopo aver scontato una pena assai mite.

La vicenda, però, racconta la situazione dei cristiani di questa parte del mondo anche al di là di quel dramma atroce. Lo spiega bene monsignor Paolo Bizzeti, gesuita, succeduto a monsignor Padovese dopo un intervallo assai lungo, avendo preso possesso della cattedrale di Iskenderun il 29 novembre del 2015. «È vero – dice il vicario apostolico – sono occorsi più di 5 anni per colmare quel vuoto, cosa che non ha mancato di aggravare lo choc della comunità cristiana locale. Certo, in una situazione di estrema scarsità di risorse umane e finanziarie non era facile trovare un successore. Ma si è anche sottovalutata l’importanza di assicurare una continuità alla presenza cristiana in questa regione. Forse si è pensato che la Turchia fosse ormai un Paese islamizzato, chiuso, anche se in tutti questi anni le comunità cristiane e i religiosi hanno potuto continuare il loro servizio. Insomma, è innegabile un certo ritardo da parte della nostra Chiesa latina nel comprendere l’importanza della Turchia anche per il cristianesimo di oggi, oltre che come luogo delle origini cristiane. Qui siamo alla cerniera tra Oriente e Occidente, in un crocevia dove i problemi dello sviluppo economico, dei modelli di civilizzazione, della convivenza tra le fedi, sono molto sentiti. È quindi importante che la Santa Sede continui a investire su questo Paese. Cosa che infatti è avvenuta negli ultimi anni, in cui sono arrivati tre nuovi vescovi e un nuovo nunzio, monsignor Paul Fitzpatrick Russell, persona dinamica che ama questo Paese».

Caratteristica, questa, che è anche di monsignor Bizzeti. Fiorentino, nato nel 1947, nella Compagnia di Gesù dal 1966, già docente di Teologia spirituale presso la Facoltà teologica del Triveneto, padre Paolo (così continua a chiamarlo chi lo conosce meglio) è un profondo conoscitore della Turchia, cui ha dedicato diversi libri e guide, ed è anche fondatore dell’associazione ‘Amici del Medio Oriente’ (Amo). «Questi due anni di missione in Turchia – dice – sono stati una grazia di Dio. Essere straniero in un Paese e viverci da cristiano ti aiuta a vivere il Vangelo. La mia fede è cresciuta, si è approfondita. Direi, anzi, che un’esperienza di vita in missione dovrebbe essere messa nel curriculum di formazione di un prete, perché aiuta a cogliere i limiti del tuo mondo, della tua cultura, della tua Chiesa e a fortificare le tue motivazioni. Poi qui siamo a stretto contatto con l’altro per eccellenza della nostra epoca, l’islam, ed è una provocazione forte, perché trovi persone che hanno serietà morale e credono in Dio e ti spingono a farti nuove domande. Ed è un’esperienza forte anche essere parte di una minoranza che non conta nulla. Io sono un vescovo ma non ho niente, non sono nemmeno riconosciuto nel mio rango e nella mia identità. Il che spinge dolcemente a ripensare molte cose».

L’esperienza spirituale, comunque, non è l’unica a far riflettere, da queste parti. Appena oltre il cancello del vicariato incombe un monolite scuro grande quanto un isolato: è la sede del Comune di Iskenderun, costruita abusivamente anche su terreni della Chiesa latina. Un arbitrio mai sanato, a dispetto della buona volontà della Chiesa che rinuncerebbe anche a parte delle sue giuste pretese. La Chiesa latina, però, sconta una debolezza: non ha riconoscimento ufficiale da parte dello Stato turco. Che invece altre Chiese hanno. Fino a che punto è un problema? «Nel Trattato di Losanna del 1923 il riconoscimento fu previsto per le Chiese caldea, siriaca e armena. Si pensava che il resto sarebbe stato messo a punto nei mesi successivi, cosa che invece non avvenne anche per l’ignavia delle potenze occidentali. E lì siamo rimasti. Il riconoscimento giuridico della Chiesa cattolica latina come tale non è indispensabile, lo è invece quello delle parrocchie, della Caritas e degli strumenti con cui la Chiesa cattolica vive la sua vita pastorale».

Questa condizione genera problemi nelle relazioni con le altre Chiese? «Tra noi non ci sono difficoltà ma i nostri problemi non sono i loro, è chiaro. Alla fin fine la Chiesa latina è in buona parte una Chiesa di stranieri e io stesso, come vescovo, ogni anno devo ottenere il permesso di soggiorno. Il che è paradossale, perché la Chiesa fondata sul Nuovo Testamento è qui da sempre. Basti ricordare che i primi sette concilii ecumenici si sono celebrati qui, in territorio turco. Il pericolo è proprio questo, oggi: che si consideri il cristianesimo come qualcosa di ‘straniero’ quando invece è originario di questo territorio, da duemila anni». Monsignor Bizzeti ha usato un’espressione forte: ‘una Chiesa di stranieri’. E muovendomi tra Iskenderun, Antakya, Adana, Mersin, ho trovato infatti sacerdoti e religiosi italiani, romeni, indiani, nigeriani, e un solo turco. Ma il vescovo ha in mente un’altra accezione, che supera le questioni di passaporto. «Da quando la Chiesa latina ha ricominciato ad avere qui una presenza significativa, cioè da circa due secoli, è mancato forse il necessario sforzo di inculturazione. Nelle parrocchie, nelle case religiose, nelle scuole si è riproposto il modello delle Chiese occidentali, quando invece sarebbe stato utile coniugare il cristianesimo con la grande tradizione culturale turca. Inoltre, i religiosi dei vari ordini sono stati benemeriti, hanno garantito il servizio pastorale alle comunità cristiane locali, ma non c’è stato un piano concertato che permettesse il nascere di una Chiesa diocesana locale. Per certi aspetti la Chiesa latina in Turchia non ha recepito la novità del Concilio Vaticano II».

Un tema importante, questo. Perché la Turchia continua a cambiare, e a gran velocità. Il lungomare di Iskenderun lo mostra in poche centinaia di metri. Un’enorme statua di Atatürk, il padre della patria, circondato di soldati e bandiere. Un centro commerciale di superlusso. Una grande moschea di fresca costruzione. Dio, patria e dollaro, con l’accento su questo, quello o quell’altro secondo le stagioni politiche. Una sfida ulteriore, per la Chiesa latina. «I cambiamenti degli ultimi vent’anni sono impressionanti – dice monsignor Bizzeti – . La Turchia si è aperta alle dinamiche del libero mercato, si è abbandonata a una certa euforia consumistica, ha vissuto una forte urbanizzazione, tanto che oggi quasi metà dei turchi vive in poche grandi città. La società turca è in grande movimento, tra molte difficoltà. La Chiesa, di fronte a tutto questo, forse non è stata capace di interpretare a fondo il cambiamento e di capire che esso offriva anche grandi opportunità di rinnovamento per la stessa presenza cristiana. La popolazione turca è aperta, non priva di pregiudizi ma anche incuriosita dai cristiani, soprattutto i giovani. E forse ci siamo interrogati poco su come farci conoscere. Non vogliamo fare proselitismo ma abbiamo il dovere di farci conoscere per ciò che siamo. È mancata la strategia pastorale, ma adesso ci stiamo muovendo».

Nessun proselitismo, conferma monsignor Bizzeti. Però le conversioni al cristianesimo sono un rivolo che non si ferma. L’anno scorso, solo presso la parrocchia di Mersin, ci sono stati nove battesimi di adulti. Ad Antakya (Antiochia), in un solo pomeriggio presso la comunità cappuccina, ho visto arrivare tre ragazzi desiderosi di scoprire il cristianesimo. Un fenomeno di cui, da lontano, non si ha piena consapevolezza. «È vero – dice il vescovo – ci sono molte persone interessate al cristianesimo, e non manca chi chiede di diventare cristiano. Noi siamo molto cauti. In tutte le parrocchie abbiamo un percorso molto serio di catecumenato che va dai due ai cinque anni, quindi percorsi molto impegnativi. A volte ci sono difficoltà con le famiglie di origine di queste persone, ma in questo Paese non è fatto alcun impedimento a chi vuole convertirsi. È la conferma che le comunità cristiane, presenti qui fin dai tempi degli apostoli, hanno ancora una linfa vitale».

Nessun impedimento. Però la società turca si sta reislamizzando di gran carriera… «Qui siamo in Medio Oriente. Noi abbiamo fatto una netta separazione tra vita civile e vita religiosa, e soffriamo semmai del problema opposto, di una religiosità che è diventata individualistica, personale e intimistica. Qui, da sempre, religione e vita civile sono realtà che interagiscono. Io ritengo in effetti legittimo che valori religiosi, o di ispirazione religiosa, abbiano anche una valenza civile. Ma occorre un grande equilibrio, che qui negli ultimi anni è forse mancato. Bisognerebbe garantire un maggiore pluralismo. Oggi la libertà di insegnamento è minacciata e si registra la tendenza a fare della scuola un luogo dove non solo si trasmette la cultura dell’islam, ma si introducono i bambini e i ragazzi alla vita religiosa. Sulla libertà di ricerca e di dibattito all’Università, la Turchia potrebbe fare passi avanti, altrimenti si mette un’ipoteca non da poco anche sullo sviluppo del Paese».

 

Avvenire, Fulvio Scaglione, venerdì 12 gennaio 2018