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Padre Antuan racconta la sua fede

Le preferenze apostoliche universali dei gesuiti

L’articolo della redazione di Communio sull’incontro con p. Antuan Ilgit, gesuita turco, tenutosi il due dicembre nell’aula Magna della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale – sez. San Luigi, sul tema: «Dialogo con l’Islam su terreni scivolosi».

Accolti dalle coinvolgenti note dalle sfumature “sufi” della soundtrack de Hamam (The Turkish Bath), abbiamo preso parte all’incontro con p. Antuan Ilgit, gesuita turco, tenutosi nell’aula Magna della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale – sez. San Luigi, sul tema: «Dialogo con l’Islam su terreni scivolosi».

Stando alle parole del rettore p. Franco Beneduce, l’incontro nasce dalla sollecitazione di papa Francesco a rivolgere particolare attenzione ai contesti in cui viviamo e operiamo, caratterizzati da un pluralismo etnico-culturale e portatori di differenti tradizioni religiose, nella persuasione che la cultura del dialogo è la via maestra, anche se spesso fatta di terreni scivolosi.

Narrare un’esperienza di conversione in un particolare contesto.

L’intento di padre Antuan è stato quello di narrare con semplicità la sua esperienza di conversione vissuta nel particolare contesto turco, paese particolarmente influente nel mediterraneo dal punto di vista geopolitico che a suo dire «sta vivendo una crisi di identità», in cui la presenza cristiana è stata ridotta da una serie di politiche repressive nell’arco di un secolo dal 30 allo 0,2 % su una popolazione di circa 81 milioni di abitanti.

In realtà padre Antuan nasce in Germania da genitori turchi di fede musulmana emigrati per necessità lavorative. È comunque cresciuto in Turchia, e dopo aver conseguito la laurea in Scienze politiche ed economiche ad Ankara, è arrivato qui in Italia per proseguire il suo cammino vocazionale, che lo ha reso sacerdote gesuita e docente di teologia morale.

La svolta di un musulmano «inquieto».

La svolta nel suo cammino di musulmano «inquieto», da sempre caratterizzato da una «inclinazione» verso aspetti spirituali e profondi, è avvenuta in seguito alla malattia della madre e dalla sofferenza vissuta dalla sua famiglia che non aveva i mezzi per pagare le spese sanitarie.

Un giorno a Istanbul, preso da domande esistenziali che non trovavano risposte soddisfacenti nell’imam della moschea, è entrato in una chiesa cattolica dedicata a Sant’Antonio da Padova, da cui il suo nome di battesimo: «Nella messa celebrata in turco ho incontrato un Dio che si era fatto uomo, un Dio onnipotente e umile, un Dio che metteva la sua tenda in mezzo all’umanità… al contrario di un Dio che aveva delle distanze invalicabili e tendeva sostanzialmente a giudicare e punire come ero stato istruito nei corsi coranici».

Successivamente è entrato nell’unica chiesa cattolica della sua città – anche questa dedicata a Sant’Antonio – in cui ha sentito parole “sconvolgenti” mentre si celebrava la messa: «“Prendete e mangiate, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. Per me fu una RIVELAZIONE che suonava come una RIVOLUZIONE: la rivoluzione di un Dio, fino a quel momento vissuto come un’entità irraggiungibile e che si rende vicino, uomo tra gli uomini, che si fa addirittura mangiare per amore».

Su binari paralleli.

Da questo momento in poi la sua conversione e la sua vocazione hanno viaggiato su binari paralleli, anche perché «quando uno trova la felicità, il senso della propria vita, vuole portarla agli altri, vuole annunciarlo, affinché anche gli altri trovino la felicità e possano dare un senso alla loro vita».

Un uomo solo.

Non bisogna dimenticare, tuttavia, che alla sua conversione ha fatto seguito una rottura drastica con una buona parte della sua famiglia: «Quando ci si converte, la più grande difficoltà è che sei rifiutato dalla tua comunità di appartenenza, e allo stesso tempo non sei accolto a braccia aperte dalla comunità cristiana. Questa, almeno inizialmente, ha delle resistenze, dei dubbi sull’autenticità della tua fede e sulle tue motivazioni».

La responsabilità di essere un ponte.

«La grazia della conversione che ho ricevuto come dono, mi dà la grande responsabilità di essere un ponte tra le culture che trova concretezza nella missione che mi è stata chiesta come gesuita. E proprio per questo motivo, per poter essere un vero ponte che ho voluto studiare la bioetica, con la prospettiva di un contributo al dialogo interreligioso attraverso la bioetica».

Perché proprio la bioetica come «terreno scivoloso» su cui instaurare un dialogo?

«La bioetica è un campo fertile per un dialogo fruttuoso, in quanto, tutte le fedi, si pongono riflessioni etiche. Un dialogo che ruoti esclusivamente attorno agli aspetti dogmatici, da solo non porta lontano, mentre un confronto sulle questioni legate a inizio, preservazione e fine della vita aiuta a scoprire percorsi che si possono fare insieme».

Chi è oggi padre Antuan?

Un uomo riconciliato e grato: «Sono grato a Dio per avermi donato la possibilità di vivere in modo genuino la fede islamica e poi di avermi incontrato entrando nella mia storia. Non butto via nulla del mio passato nell’islam, attraverso il quale ho avuto la grazia di credere in un unico Dio, e questa strada è stata perfezionata in Cristo, l’unico salvatore e Signore della vita».

Con una sola paura: «Ho paura di me stesso, perché con la mia poca fede e con la mia incostante adesione, potrei, rovinare dal momento all altro il misterioso disegno di Dio su di me e attraverso di me. Così chiedo costantemente al Signore di aumentare la mia fede e di tenere inchinato il mio capo sotto il Suo benevolo sguardo. So che mi fissa e come mi fissa continua anche ad amarmi (Cf Mc 10,21)».

Redazione Communio

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