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P. Arturo Sosa: tradizione e futuro della fede

Su Settimana una lunga intervista, “due ore di dialogo all’insegna della franchezza e della passione per il Vangelo” tra il Generale dei gesuiti e il giornalista Daniele Rocchetti

«Quando penso alla mia terra, al Venezuela, il cuore si rattrista, si contrae, si chiude. È una situazione molto difficile, non si vedono spiragli o soluzioni imminenti: le ferite sono così profonde che, per risanare questo tessuto sociale, ci vorrà molto tempo». A parlare così è padre Arturo Sosa Abascal, 31° superiore generale (o, meglio, Preposito Generale) della Compagnia di Gesù, il primo non europeo e, come papa Francesco, proveniente dall’America Latina.

Eletto nell’ottobre del 2016, laureato in filosofia e in scienze politiche, da sempre appassionato e studioso di politica, padre Arturo mi riceve al terzo piano della curia generalizia, a Borgo Santo Spirito (Roma). Due ore di dialogo all’insegna della franchezza e della passione per il Vangelo.

Padre Sosa, da poco più di un anno e mezzo lei è Preposito Generale dei gesuiti. Qual è la sfida maggiore che sente di dover affrontare?

In questo tempo è quella di essere testimoni del Vangelo in contesti diversi da quello al quale siamo abituati. Il punto di partenza è riconoscere le differenze come rivelazione di Dio. La diversità non è qualcosa di non voluto: Dio si manifesta proprio tramite la diversità e la libertà.

Come si può, dunque, essere testimoni autentici della fede? Un buon modo è quello di proporla e non di imporla, testimoniarla e perseguirla senza attaccamento al potere. È il potere dei segni: essere un segno di attrazione che propone la fede nell’umanità di Gesù, offrendo alle persone l’immagine di un Dio amoroso e misericordioso.

Abbiamo bisogno di approfondire la fede. Altrimenti, testimoniare diventa impossibile. Per questo sento necessario, a monte, anche un grande lavoro intellettuale. Nel carisma originario della Compagnia abita questa inquietudine di capire, di comprendere cosa veramente capita, come sono le altre culture, le altre religioni, le tendenze economiche, sociali e politiche. Il lavoro intellettuale è qualcosa che, da sempre, ci caratterizza. È una sfida, perché, se accettiamo la presenza di punti di vista diversi, questo lavoro intellettuale ci può portare ricchezza e tanti spunti utili.

Grazie a Dio, noi siamo un corpo multiculturale: tutti gesuiti, ma tutti molto diversi. E questo è un vantaggio che ci permette di fare esperienza e di capire il mondo in modo più profondo. Se si cerca di comprendere, si può discernere. Per noi, però, il discernimento non finisce qui. Il discernimento ci porta all’azione, bisogna pianificare cosa si fa. Lo ripeto: questa è una grande sfida per noi.

L’opposizione è al Concilio

– Quanti sono i gesuiti nel mondo?

Ora siamo sedicimila, con tantissime istituzioni, fra centri, università e scuole. Le opere apostoliche della Compagnia sono molto apprezzate e sono peculiari della nostra identità. Ma, nel mondo, bisogna sapere non solo cosa si può fare, ma ciò che è meglio fare. Un cuoco può cucinare diversi piatti, ma deve capire quale è il piatto che gli viene meglio. La sua specialità, quella che nessuno può fare meglio di lui. Per questo sostengo che bisogna confidare non solo nell’improbabile, ma anche nell’impossibile. Vuol dire che, se noi abbiamo veramente fede, quello che sembra impossibile ai nostri occhi può diventare possibile. Nulla è impossibile per Dio, dice l’angelo a Maria.

Dio è creatore, e noi siamo stati creati a immagine di Dio, quindi siamo creatori anche noi. Possiamo fare cose nuove, se crediamo che non sia impossibile e non ci autolimitiamo a quello che ci sembra possibile. Se si crede a Dio, niente è impossibile. Anche le cose che paiono impossibili possono diventare possibili. Certe cose che sembravano impossibili per gli esseri umani del XVI secolo, oggi sono normali e ordinarie. Per esempio, andare in ventidue ore dall’Italia all’Australia. Qualcuno ha sognato che ciò era possibile e lo ha realizzato. L’uomo migliora se stesso e la sua vita se pensa che l’impossibile possa diventare possibile. Non bisogna rassegnarsi.

– Il pontificato di papa Francesco è sotto il segno di una volontà tesa alla piena realizzazione del concilio Vaticano II…

È vero. Penso che l’opposizione nella Chiesa più che a papa Francesco sia al concilio Vaticano II. Nelle scorse settimane egli si è recato sulla tomba di don Tonino Bello che parlava della necessità che la Chiesa abbandoni i segni del potere per passare al potere dei segni.

Uno dei segni più evidenti è che la Chiesa ha colto per sé il valore della povertà (non della miseria). Non solo una Chiesa per i poveri, ma una Chiesa povera.

In un certo senso, credo che la Chiesa debba ringraziare il processo di secolarizzazione. Ora non è più legata al potere come in passato. La Chiesa ha perso il suo potere in campo politico e culturale. L’enorme libertà che ne è scaturita ha fatto sì che potesse diventare quello che veramente dovrebbe essere. La Chiesa può essere ciò che il concilio Vaticano II auspicava: il popolo di Dio. E il popolo di Dio è povero, non è il popolo dei ricchi. Certo, ci sono persone che hanno condizioni economiche favorevoli e che sono, allo stesso tempo, buoni cristiani. Ma, in genere, il popolo di Dio è povero.

Non avendo più, come un tempo, un canale diretto con il potere, la Chiesa è più libera di poter essere ciò per cui è nata. E i segni sono quelli di Gesù. Gesù era un uomo libero, non apparteneva neppure alla casta sacerdotale, non aveva alcun segno del potere, apparteneva al popolo di Dio. Proprio per questo, la Chiesa, oggi, può essere vista come il popolo di Dio e può fare dei segni il proprio potere. Come il segno dell’accoglienza, l’apertura alla diversità, la coerenza fra quel che predica e quel che dà.

Mi pare che, in questo, papa Francesco dia dei buoni esempi. Il papa mette sul tavolo tanti problemi, quelli che i potenti non vogliono vedere. Penso a quando parla della cultura dello scarto: sono proprio coloro che detengono il potere che scartano gli altri. Quindi, mi sembra che questo tempo sia un tempo di conversione per la Chiesa e bisogna ringraziare il Signore per la libertà che ci dona.

Ora la Chiesa è una Chiesa povera. Dobbiamo sostenere quello che facciamo con grande forza e sollecitare la solidarietà degli altri. Noi non abbiamo altri mezzi che quelli che possiamo ricevere dagli altri. Non abbiamo altri mezzi che provocare la solidarietà.

I muri della paura

– A suo avviso, quali sono i tratti del cristianesimo del futuro?

Autenticità nella decisione personale. Persone che veramente decideranno di essere cristiane.

Inoltre, il cristianesimo del futuro si innesterà sul tralcio di una comunità viva. La fede cristiana non si vive da soli, ma assieme, in comunità e fratellanza, ovvero fra persone che hanno fatto una medesima scelta consapevole.

E poi svilupperà il tralcio della testimonianza, il servizio verso gli altri. È il dinamismo normale di una vita cristiana, spinta a fare qualcosa non per se stessa, ma per gli altri. Una fede da condividere, quindi, che genera vita.

Ci sarà più coraggio nel testimoniare il Vangelo, nel prendere posizioni critiche davanti alla società. E questo sarà positivo, perché permetterà un dialogo con il potere, senza compromettersi con esso.

– Oggi si discute molto di tradizione.

Credo sia importante distinguere tra tradizione e memoria. La tradizione non deve essere concepita come fine a se stessa ma deve farsi memoria. La memoria è qualcosa di molto positivo. Siamo orgogliosi della memoria che conserviamo, della nostra storia. Siamo qui grazie all’agire dei nostri avi, altrimenti non saremmo esistiti. Ora però dobbiamo fare quello che noi ci sentiamo di fare. Mi pare che sia un atteggiamento, cristiano e umano, normalissimo. La Chiesa non può fortificarsi dentro le mura di un castello, la Chiesa è extra moenia, votata per rompere le mura, non per edificarle. È quello che ha fatto Gesù di Nazareth.

Sono stati i gesuiti a inventare una forma di vita religiosa consacrata senza muri. Fino a quel momento, la vita consacrata era nel monastero. I gesuiti, invece, hanno detto che volevano essere uniti ma dispersi. In diversi posti. Una forma di comunicazione a distanza. Noi abbiamo un’unità di cuore e di missione e ci manteniamo in comunicazione.

Sant’Ignazio ha creato un sistema: dispersi ma molto ben comunicanti. Secondo me, è questo il modo per concepire la guida di una comunità cristiana, inserita in un determinato luogo e in un determinato tempo. Ogni persona, del resto, ha modi e capacità creative diverse. E il luogo è un aspetto fondamentale: non si può agire alla stessa maniera in Italia, in Indonesia, in Svizzera o in Patagonia. Se si vuole fare qualcosa di utile, bisogna conoscere bene il contesto. E i tempi.

– Molti cristiani vivono con ansia questo tempo. Vivono i cambiamenti con paura.

Di questi tempi, molto, purtroppo, si gioca sulla paura. Paura è una parola che va a braccetto con sicurezza. Senza sicurezza si genera la paura. Ma dove si trova la sicurezza? È una domanda molto profonda per ogni essere umano. Per molti la risposta suona così: la sicurezza è nelle norme. La paura può nascere quando queste norme mutano. Se noi diciamo che il cristianesimo è una fede religiosa e non una religione, la paura può essere sconfitta.

Qual è la differenza tra fede religiosa e religione? La religione è un sistema di regole: si innalza un muro e si agisce all’interno di questo muro. Questo però non è cristianesimo. Il cristianesimo è una fede in cui Dio è presente nella storia umana, una fede che si dà mediante lo Spirito Santo.

La sicurezza è solo quella che ti dà l’amore di questo Dio. Niente di più, niente di meno. Pensiamo a san Francesco, al suo gesto. Davanti al padre, lui si spoglia di quello che gli dà sicurezza: un distacco dalla sicurezza economica, sociale, politica e di pensiero. Si spoglia delle certezze del suo tempo per essere “insicuro”, per riporre la propria fiducia unicamente nella fede in Gesù.

Il rischio della fiducia

– Oggi si parla spesso di “scontro di civiltà” ma, più volte, papa Francesco – sulla scia di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI – ha ribadito che non vi è spazio né legittimazione per un conflitto tra religioni. Qual è la responsabilità storica dei monoteismi – e del cristianesimo in particolare – per l’edificazione di una pace civile e mondiale?

La guerra è dappertutto: nella vita reale, come in quella della fantasia. Mi sorprende che, spesso, l’intreccio di un film fantascientifico sia proprio la guerra fra mondi o galassie differenti. O si porta in scena la guerra o lo spettacolo pare non essere interessante. Questo rischia di diventare il nostro sguardo, non quello del Vangelo e delle religioni che cercano di guardare gli altri come fratelli e non come nemici, affinché fra persone possa nascere un incontro e non uno scontro.

Torniamo al discorso sulla paura. Se io ho una sicurezza che è fondata sulla fede, posso anche fidarmi degli altri e dell’altro. Se, invece, ho una sicurezza che si basa su regole e visioni chiuse, allora l’unico modo che ho di entrare in relazione con l’altro è che lui accetti le mie regole. Questo lo si fa anche all’interno delle nostre famiglie, quando i genitori dicono senza flessibilità al figlio: «Finché sei in questa casa, segui le regole di questa casa». Non sono capaci di valorizzare le scelte differenti del figlio cresciuto e dirsi contenti delle sue scelte.

La libertà umana, se non è accompagnata dalla fiducia e dalla sicurezza nella fede, non è possibile. Se non è accompagnata dalla fede, gli esseri umani si difendono a tutti i costi, oppure, peggio, attaccano chi non si uniforma alle regole. Quel che è triste, in questa nostra epoca, è che insegniamo ai nostri figli a non fidarsi più di nessuno.

E se non si cambia questa mentalità cosa faremo? Pensiamo di essere ben al sicuro nei nostri castelli di difesa. Ma non è così. Ed è un cammino difficile per l’umanità. Fidarsi dell’altro è sempre un rischio. Ma il rischio produce vita. Bisogna fidarsi dell’altro perché, in linea di principio, l’altro è sempre un fratello.

 Come giudica le resistenze sempre più evidenti di una parte minoritaria della Chiesa nei confronti di papa Francesco?

Papa Francesco riceve molte critiche, ma non si spaventa. Al contrario: ritiene sia bene che queste critiche si manifestino e siano affrontate, ma non perseguitate o punite.

L’importanza data dal papa alla collegialità è enorme e lui stesso mette spesse volte in dubbio le proprie certezze. Lui ha un certo modo di vivere e capire il cristianesimo, ma lo mette in discussione, con i vescovi e con tutti i cristiani. Desidera creare spazi comuni fra persone diverse. È molto importante. E la critica, in questo senso, è benvenuta. È questa forma di tolleranza (e di libertà di critica) che mi spinge a dire che ci muoviamo sempre più nel solco del concilio Vaticano II (anche se la critica è proprio verso il concilio Vaticano II).

– Quali sono i gesti di papa Francesco che l’hanno più colpita?

Sono tanti, è difficile scegliere. Tra i primi, un gesto significativo è stato quello di andare a Lampedusa: è andato sulla piccolo isola di Lampedusa a dire che il mare non può essere la tomba di coloro che cercano una vita più umana. È stato un gesto molto bello: andar lì e riconoscere quel luogo e chi in quel luogo accoglie i rifugiati dall’Africa.

Ma ci sono anche altri gesti. In ambito ecclesiale, ad esempio, quello portato avanti, attraverso il dialogo, con le Chiese protestanti: pregare con i “diversi”. Bellissimo.

Populismo antidemocratico

– I cristiani vivono una stagione di retroguardia rispetto alla passione per la città, all’impegno politico. Eppure, dopo l’incarnazione, la vera basilica dove trovare tracce di Dio è il mondo. Perché bisogna sporcarsi le mani dentro la storia?

Perché essere seguaci di Gesù vuol dire proprio questo. Essere cristiano significa incarnarsi. In che maniera? Secondo lo stile di Gesù. Ovvero con libertà, e stando dalla parte dei poveri, proclamando la giustizia, perseguendo il bene comune.

Ma non si deve creare una società sul modello di una frittata girata, ovvero portando in alto quelli che stavano in basso e viceversa, ma dando vita a una società dove non ci sia più gente che stia in basso.

Non si può capire il cristianesimo senza l’impegno politico. Il cristiano deve sempre sporcarsi le mani per il bene comune, per dare alla luce una società più giusta e umana.

Io credo che una delle ragioni della crisi del cristianesimo nella società occidentale stia anche in questo distacco fra i cristiani e la politica. Proprio perché si pensa che l’a-politica possa essere un’alternativa possibile. È questa apatia che ha causato autoritarismi e personalismi della politica. È proprio perché è mancata la buona volontà dei cittadini che i fautori di una politica autoritaria hanno occupato spazi.

Penso che il cristianesimo porti necessariamente ad essere cittadini attivi, nel senso di persone che si occupano del bene comune. Quando i cristiani scelgono il disimpegno, è negativo. È la presenza o meno di questa scelta che dimostra se la fede del cristiano è autentica o no.

– Lei è studioso di fenomeni sociali e politici. Avrà spesso incrociato il termine populismo. Un termine molto diverso a seconda dei contesti.

Nell’America Latina la parola “populismo” ha un senso molto diverso da quello usato in Europa. La parola populismo nasce con il passaggio dalle società rurali alle società moderne: nascono i movimenti di massa, i partiti di massa. Massa intesa come popolo, massa che intrattiene con il leader una connessione profonda, positiva. Invece quello che si indica in Europa come populismo è in realtà una forma leaderistica di intendere la politica: leader politici che parlano in nome del popolo ma che non hanno dietro un vero popolo, bensì una massa manipolata.

Il populismo occidentale è demagogia, una malattia grave della democrazia. Non c’è più il popolo, il popolo diventa massa, poiché esiste solo nelle parole di questi leader. Sono loro che dicono quale sia la volontà del popolo.

Fortunatamente, se ci sono tanti mezzi per la manipolazione, ce ne sono anche tanti per la partecipazione. Per tante persone è più comodo criticare che impegnarsi, ma essere cittadini significa fare una scelta, impegnarsi. Vogliamo scendere in campo o no? Il cristianesimo, in alcuni momenti della storia, è stato una spinta ad andare in campo: dobbiamo ritornare a fare così, scendere in campo. Spingere le persone ad essere cittadini. Per fedeltà al Vangelo e al cristianesimo bisogna spingere a fare politica e ad entrare in politica. Dare un contributo alla società e farlo come, in passato, hanno fatto molti cattolici che hanno donato anche la vita per la cosa pubblica. Alcuni, a volte, hanno sbagliato. Ma nessuno è infallibile. Di fatto, hanno risposto, a livello cristiano, ad una vocazione. Una vocazione che deve essere promossa, perché tutti quanti abbiamo una responsabilità politica.

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