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Roma. Padre Mourad: «Dopo il sequestro credo ancora nel dialogo»

La testimonianza all’incontro «Comunità di Deir Mar Musa in Siria. Vocazione al dialogo nelle ferite dell’oggi», organizzato dall’ Associazione Amici di Deir Mar Musa (gruppo aderente al Magis), Fondazione Magis e Centro Astalli

«Dopo la mia esperienza di prigionia sono ancora più convinto della necessità di dialogare. Penso che non ci sia nessuna altra via se non quella del dialogo per far convivere in pace persone di fede e credo politico diversi».

Cinque mesi nelle mani dei miliziani del Daesh (Isis) non hanno fatto ricredere padre Jacques Mourad, priore di Mar Elian (Siria), monastero parte della comunità di Mar Musa, fondata nel 1991 dal padre Paolo Dall’Oglio. Ne ha parlato nell’incontro «Comunità di Deir Mar Musa in Siria. Vocazione al dialogo nelle ferite dell’oggi», organizzato dall’ Associazione Amici di Deir Mar Musa (gruppo aderente al Magis), Fondazione Magis e Centro Astalli, domenica 13 dicembre.

Quelli della prigionia sono stati mesi duri, in cui il religioso ha vissuto la paura e ha sofferto per le percosse. Anche se le umiliazioni erano cominciate prima del rapimento, quando i miliziani del Daesh sono arrivati nella regione. I cristiani, ha ricordato il religioso, hanno iniziato a essere trattati come miscredenti, individui da sottomettere. Un trattamento che, in parte, vale anche per i musulmani che non aderiscono al Daesh. «Per loro – ha osservato padre Mourad – sono previsti corsi di rieducazione sull’interpretazione radicale della legge islamica e una processo di pentimento in cui il musulmano confessa le proprie mancanze a uno sceicco e quest’ultimo gli concede una sorta di assoluzione».

In questo contesto, però, la comunità monastica di Deir Mar Musa, che comprende quattro realtà (due in Siria, una in Irak, una in Italia), ha proseguito nelle sue attività: preghiera contemplativa; lavoro manuale per completare il lavoro intellettuale; accoglienza. «Nel 2013 a 15 km da Mar Musa – ha detto padre Mourad – c’è stato un forte bombardamento che ha distrutto tante case di cristiani e musulmani. Ciò ha causato molti profughi che si sono rifugiati a Mar Musa. Da quel momento abbiamo iniziato a chiederci cosa Dio volesse da noi: se restare o andare via. Dio ci ha detto di essere una presenza viva, vicina, autentica, che offre un messaggio di pace e fraternità. Abbiamo percepito di non essere soli, c’era Dio con noi e il sostegno nella preghiera dei nostri amici fuori dalla Siria. Il discernimento è continuo, giorno per giorno, ma rimanere in Siria e Iraq è una prova di fede per tutti noi. Sarebbe facile cedere alla logica dello schieramento, più difficile essere ponte di dialogo: la nostra fede è continuamente messa alla prova, giorno dopo giorno, ma è anche esperienza di Dio. Abbiamo tutti una responsabilità, il battesimo è responsabilità, è una missione. Rimanere in Siria è una missione, così come è una missione far convivere la Chiesa con l’Islam, una accanto all’altro, e accogliere in Italia i profughi siriani».

Secondo padre Mourad, la guerra in Siria non terminerà a breve perché gli interessi contrapposti della comunità internazionale fanno sì che non si possa trovare una soluzione immediata. Anche l’Onu, che dovrebbe tutelare i diritti umani, è prigioniera dei conflitti fra le potenze mondiali e regionali. Ma allora quale futuro aspetta la Siria? La nostra speranza di padre Jacques è che sia il dialogo a trionfare. Il punto di incontro tra musulmani e cristiani non può essere che il concetto di misericordia .«Alcuni anni fa – ha ricordato il religioso – uno sceicco musulmano mi ha detto: ognuno di noi è uscito dall’utero della mamma. Utero in arabo ha lo stesso significato di misericordia. Il bambino per uscire ha bisogno di “uscire” dall’utero, se rimane nello stesso muore. Così anche noi, ognuno di noi ha bisogno di uscire dall’utero, dalla tradizione, dal ‘si è sempre fatto così’, per diventare adulti, per vivere davvero. Questo atteggiamento ci permetterà di modificare il nostro sguardo sulle cose, vedere con occhi nuovi le situazioni. Sarò ottimista, ma penso che anche i miliziani dell’Isis sapranno allineare il loro pensiero al principio della misericordia perché la loro fede lo pretende. Per questo dico e ribadisco che è indispensabile riprendere il dialogo. Anche con i terroristi».

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