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India. Il Magis in un progetto di sostegno ai gruppi etnici e tribali

In India i gesuiti sono scesi in campo per aiutare gli adivasi. E il Magis sostiene i loro progetti, indirizzati principalmente a giovani, donne ed agricoltori

Adivasi è un termine generico che indica un insieme eterogeneo di gruppi etnici e tribali considerati la popolazione aborigena di India. Secondo l’ultimo censimento del 2011, gli adivasi costituiscono l’8,6 per cento della popolazione indiana, cioè 104 milioni di persone. Sebbene racchiusi sotto un’unica etichetta, non costituiscono una realtà culturalmente ed etnicamente omogenea: sono infatti suddivisi in 450 gruppi sparsi su tutto il territorio indiano, ognuno dei quali possiede una sua specifica identità ed è caratterizzato da particolari usi e costumi.
Sono popoli che hanno sempre vissuto in stretta simbiosi con la natura, per la quale nutrono un profondo rispetto e da cui ricavano tutto il necessario per sopravvivere. Per questo motivo, molti gruppi sono sensibili al degrado ecologico causato dalla modernizzazione. A danneggiarli sono soprattutto le attività minerarie che hanno un grande impatto su esseri umani, animali e piante. Così i tribali sono sempre più spesso obbligati a emigrare. Si trasferiscono nelle grandi città, dove gradualmente perdono la loro cultura e la loro lingua. A ciò si aggiungono le divisioni tra le tribù, che impediscono una battaglia comune per il loro riscatto.
In questo contesto, l’associazione Animation Rural Outreach Service Society (Arouse), nata per iniziativa del gesuita Peter Paul Van Nuffel, lavora dal 1978 per aiutare i tribali cercando di creare «una società rurale pacificata, giusta, ben organizzata, prospera e autosufficiente». Nel 2010, in collaborazione con il Magis, Arouse ha varato un progetto a Lohardaga e a Simdega, distretti nello Stato indiano di Jarkhand. L’obiettivo dell’iniziativa è: «Migliorare la qualità della vita delle comunità di villaggio attraverso lo sviluppo globale della persona e la promozione della cultura e della vita comunitaria dei tribali». Per raggiungere questa meta, si è deciso di scommettere sui giovani, sulle donne e sugli agricoltori. In quaranta villaggi si è operato per dar vita ad associazioni di giovani si è lavorato per organizzare i giovani in associazioni che si impegnino a favore dell’unità dei popoli tribali e offrano un contributo creativo alla società. E questo cercando di promuovere le istanze delle loro comunità a livello nazionale e internazionale.
Il progetto è diviso in tre fasi, due di esse sono già state realizzate raggiungendo diversi obiettivi: è stato concluso l’iter di formazione dello staff di animatori, sono state create le associazioni giovanili, sono stati tenuti seminari di formazione e programmi sportivi, sono stati organizzati corsi di formazione sulle tecniche agricole moderne e sui diritti degli indigeni, sono state creati gruppi di auto-aiuto delle donne e degli agricoltori.
Come molte iniziative portate avanti da organizzazioni cristiane in India, il progetto ha sollevato numerose critiche di «proselitismo» ed è stato realizzato in un ambiente caratterizzato da un forte nazionalismo hindu e dal terrorismo dei gruppi naxal. Queste tensioni e minacce hanno rallentato le attività, ma non le hanno arrestate.
«Il progetto – scrivono in un report gli organizzatori – ha un potenziale innovativo molto importante per la popolazione. Il suo primo passo, difficile e lento, consiste nel rafforzare l’autostima di una popolazione da sempre lasciata ai margini e liberare la fiducia che un cambiamento in meglio della vita sia possibile e alla portata dei beneficiari. Questi processi, molto lentamente si stanno realizzando».
Il progetto procede a piccoli passi per rispettare i tempi dei beneficiari e stimolare le loro capacità. Interventi spot non servono e aiutare i tribali in modo serio richiede tempo, un accompagnamento a piccoli passi.

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