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Gesuiti News Barretta: “Compagni attenti ai processi dello Spirito”
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Barretta: “Compagni attenti ai processi dello Spirito”

Le preferenze apostoliche universali dei gesuiti

La testimonianza di padre Barretta sul complesso ruolo del Superiore. “La cura della maturità del nostro essere Compagni di Gesù, si misura quando lo stare in Compagnia diventa l’arte di sapersene andare, usando le forze che ti rimangono più per raggiungere Gesù amato che per rimanere nella sua Compagnia”.

“Quando si termina un ciclo di incarico di superiore si preferisce tacere e ci si tiene lontani da momenti come questi. Infatti si è consapevoli delle tante cose fatte ma anche dei tanti errori, allora nasce un senso come di pudore se non di sana vergogna: una cosa positiva che, se ben assunta, ti ancora a una rinnovata libertà e ad una realtà vista con altri occhi. Questa è la prima esperienza da dire.

Continuo. Ci fu un Padre anziano che non riusciva più a stare dignitosamente nella sua comunità e doveva esser passato a Gallarate. “Padre credo sia arrivato il momento di andare in Infermeria”. Prima di tutto mi sorrise, da furbetto qual era, poi mi disse: “Grazie per la mia penultima destinazione”. Aveva capito tutto. A volte ci si attacca a brandelli di vita apostolica per sopravvivere. Spesso mi sono chiesto se nell’apostolico non compensiamo ambiti della nostra vita affettiva, attaccandoci ad essi “per via ortodossa”. Eppure la maturità del nostro essere Compagni di Gesù, si misura in questi momenti, quando lo stare in Compagnia diventa l’arte di sapersene andare (p. Ciciriello, p. Davanzati, F. Testoni…), usando le forze che ti rimangono più per raggiungere Gesù amato che per rimanere nella sua Compagnia; può sembrare blasfemo quanto detto, perché sto dicendo come se si dovesse uscire di Compagnia proprio alla fine. Un po’ sì, certamente no. Prendete tutto con la saggezza dovuta, vista l’insufficienza delle parole e comprendetene il senso.

Aveva certamente capito, questi padre anziano, il criterio cronologico per cui Dio gli avrebbe dato destinazione definitiva dopo la mia transitoria; già questo non è poco.  Altresì aveva capito che la destinazione del superiore non è un assoluto e che è quotidianamente trascesa dallo Spirito che la realizza in modo imprevedibile alla faccia di tutti i soggetti coinvolti (superiori compresi). Non potete capire come mi sentii in quel momento: l’unico pensiero era che la destinazione per un superiore deve essere un atto di umiltà un cui egli deve ruminare terra e cielo nello stesso momento.

Riflettendo ancora sull’espressione di questo anziano, mi appariva chiaro che la missio del Superiore è un’indicazione autorevole, ma non di dettaglio operativo. Infatti egli deve mettere insieme gli orientamenti del progetto apostolico di Provincia con le opportunità personali dei singoli e locali del sito di destinazione e poi si ferma lì, non definisce, non dettaglia i passi concreti che invece devono scaturire dal discernimento della comunità locale che assume la missio e la declina nelle possibilità reali possibili.

In questo senso la destinazione non è mai statica, ma dinamica e sfugge al controllo del superiore che può solo farsi compagno attento del processo indotto dallo Spirito e che si compie nei suoi fratelli.

Rispetto alla destinazione che è dinamica, facevo poi confronto tra l’espressione di questo anziano e chi pretendeva una destinazione scritta. Lo scritto è una utile espressione di chiarezza, l’assenza dello scritto non deve essere segno trascuratezza del Provinciale, ma lo scritto non può eludere o evitare la dinamica di discernimento locale sulla missio. Tante volte si chiede una destinazione scritta per fissare i limiti entro i quali non devo essere“disturbato” da un superiore invadente, ma c’è anche il rischio che questa visione individualistica della missio, fissata dalla lettera, impedisca di avviare un processo che abbiamo detto dinamico, comunitario e che può variare di molto l’operatività apostolica.

Poi mettevo a confronto questo anziano con i tanti “direttori della propria opera”. Certo sono condizionato dai tanti anziani del Gesù Nuovo, molti ormai in paradiso, ma parlo anche di noi che spesse volte abbiamo bisogno di definire il nostro specifico apostolico per dare senso al nostro stare in Compagnia. Drammatico. Questo atteggiamento è diffuso ed è la minaccia più grande a qualunque attuazione di progetto apostolico di Provincia, perché vengo prima io con le mie doti da realizzare e dopo quello che devo alla Compagnia come fosse una tassa da pagare per stare in essa.

Ho riflettuto su spinte date durante la formazione, io presente, sul tema della creatività apostolica; erano i primi anni del 2000. Mi sono fatto esame di coscienza e sento che abbiamo sbagliato qualcosa nel non integrare il messaggio della creatività apostolica con le esigenze di appartenenza a un corpo apostolico che ti può chiedere altro da quella cosa fantastica che tu sai fare. Anche il discernimento sulle attitudini apostoliche fatte in scolasticato, chissà se abbiamo dato delle spinte troppo forti su aspetti particolari a svantaggio dell’insieme.

Concludo ritornando a l’aspetto scandaloso, ma sapiente del distacco dalla Compagnia alla fine di tutto. Un giorno ero ancora a San Luigi ed ogni tanto veniva in camera qualche scolastico, specialmente quanto doveva sfogare qualche ragionamento che non gli funzionava. Mi raccontava di un dialogo avuto con un superiore e lui gli chiedeva se il suo incarico fosse stato luogo di solitudine e chiaramente il suo interlocutore gli disse che lo era stato. Il superiore è uno che deve saper gestire tanta solitudine. Lo sguardo sulla Compagnia diventa talmente interno da obbligarti a un equilibrio che ti sbalza verso l’esterno, così che alcune volte ti vedi talmente lontano dalla Compagnia da sentirtene fuori, ma ti vedi così proprio perché sei dentro la sua parte più intima. Questa esperienza che ha confine sul mistero, la considero ancora parlante e profondamente evocatrice della destinazione di ogni cosa che facciamo”.

p. Claudio Barretta sj

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